sabato 6 ottobre 2012

I Masai incontrati in Kenya e in Tanzania

masai huts and children in the outskirts of nairobi
Autenticità e contaminazioni. Se provi a fare due passi lungo le spiagge di Zanzibar, vieni subito assalito da questuanti che con la scusa di fare amicizia provano a rifilarti cose di pessimo gusto o servizi turistici della più varia specie. Colpa non solo loro, ma anche dei turisti che scambiano questi incontri come la scoperta della vera Africa.
Tra i questuanti di cui sopra alcuni sono vestiti da Masai (e spesso effettivamente lo sono). Ma avendo già incontrato questo popolo anni prima alla periferia di Nairobi mi sono sembrati falsi.
Una piccola comunità nomade del Kenya si era insediata in una smagliatura del tessuto urbano (come detto di Nairobi) tentando di riprodurre per lo meno in parte il proprio mondo. Questo strano villaggio era costituito da due gruppi di capanne corrispondenti a due clan che non nascondevano le reciproche rivalità. Formalmente i miei compagni di viaggio ed io eravamo stati invitati da uno dei due clan, che ci ha accolto con un fare affettuoso e poi ci ha anche festeggiato.
Prima però i due clan insieme hanno steso una serie di stuoie sul terreno e offerto le loro mercanzie. Erano tutti oggetti fatti da loro, o meglio dalle donne del villaggio, specializzate in bigiotteria femminile. Dopo la lunghissima e rituale trattativa ho comprato per pochi euro una collana e una strana coppia di orecchini di indubbio valore antropologico.
Nonostante fosse l’ultimo giorno di viaggio e quindi avessi già preso contatto con le tante realtà dell’Africa subsahariana, quell’incontro mi ha preso alla sprovvista. Ho subito colto l’autenticità culturale del gruppo Masai. Tant’è che mi sono messo a fotografare dettagliatamente le loro capanne con grande meraviglia di tutti i presenti. Sono stato invitato ad entrare in una capanna da una anziana donna che continuava a parlare anche se io non capivo una parola della sua lingua (ero solo terrorizzato che mi offrisse qualcosa da bere, fortunatamente non è successo).
Però non ho fotografato la scena, le stuoie con i gioielli, le donne che assediavano ciascuno di noi offrendo collane, orecchini e forse altre cose che non ho memorizzato. Non ho fotografato i loro volti, il loro modo di vestire tra tradizione e contaminazione occidentale. Mi sono in parte riscattato quando le donne del clan che ci ha invitato hanno recuperato parte della loro tradizione e ci hanno salutato con una danza ed il relativo accompagnamento cantato. Le due brevi clip hanno catturato uno di quei momenti che restano negli occhi e nella memoria.
A Zanzibar i braccialetti offerti ai turisti sono banali, reperibili in molti mercati romani a prezzi analoghi. Poi all’inizio non mi piaceva il ruolo assegnato dall’albergatore ai Masai che dovevano proteggere gli ospiti da incontri indesiderati sulla spiaggia (dai questuanti mi difendo da solo, altrimenti tutto diventa artificiale). Fortunatamente il coinvolgimento negli eventi reali aggiusta la prospettiva.
Prima c’è stata la solita partita di pallone che riesce sempre ad avvicinare persone e culture. Anche se volente o nolente il calcio rappresenta un incontenibile fattore di contaminazione culturale, allo stesso tempo è un linguaggio non verbale che permette alle persone di comunicare.
Poi Teresa ha notato che all’inizio della giornata una nonna, una madre e una figlia masai attraversavano la spiaggia davanti all’albergo per rifugiarsi o nascondersi sotto le palme in un’area vuota, a fianco dello stesso albergo. Provenivano da una imprecisata zona a nord, dove probabilmente hanno costruito la propria capanna, ma non abbiamo avuto modo di verificare. In ogni caso per l’intera giornata lavoravano per realizzare i braccialetti con le perline.
Non potendo comunicare in altra maniera abbiamo ordinato dei braccialetti su misura. La cosa è stata più complicata del previsto. Innanzitutto le donne hanno chiamato un uomo che non si è capito se essere solo un interprete, per il poco inglese che sapeva, oppure se era un referente economico o addirittura una sorta di padrone. Le nostre indicazioni in termini di misure e colori sono state solo in parte capite e rispettate. Ma il vero obiettivo non erano gli oggetti, ma stabilire un contatto con le tre età della donna.
Il breve filmato mostra una cosa che va ridetta con le parole: le donne non sorridono mai. Se per le due adulte può trattarsi di pudore o legittima diffidenza, per la bambina è più difficile da capire. A quella età ridere e sorridere di fronte a persone diverse è un comportamento che ho sempre ritenuto e sperimentato come istintivo e naturale. In alternativa la fuga o il pianto. Rimango disorientato davanti allo sguardo serio o preoccupato delle bambina masai che non guarda volentieri nell’obiettivo, ma neanche si ritrae come se già avesse metabolizzato le difese e il dolore degli adulti.


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